di Fabio Colagrande © L’Osservatore Romano – 2 marzo 2011

La rete di Internet non è solo un nuovo mezzo di comunicazione per distribuire in modo più rapido e universale messaggi e idee, ma un nuovo ambiente di vita che sta trasformando profondamente la nostra cultura. Questa intuizione ha ispirato il gesuita Antonio Spadaro, esperto di comunicazione digitale, e lo ha spinto a creare, proprio all’inizio dell’anno, un blog (www.cyberteologia.it).

In linea con il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali di quest’anno il progetto scaturisce dalla costatazione che con internet “sta nascendo un nuovo modo di apprendere e di pensare”. A lui chiediamo spiegazioni sulla genesi e gli sviluppi di questa iniziativa di frontiera. “A un certo punto – ci dice – mi sono reso conto che il mio modo di relazionarmi con gli altri era cambiato grazie a Internet. Mi sono chiesto di conseguenza se e come la rete potesse cambiare il modo di pensare la fede. E quindi ho cominciato a rifletterci e a cercare della bibliografia. Ho constatato che esisteva un’ampia riflessione su come svolgere pastorale in rete ma non c’erano studi sufficienti su come essa possa influire sul modo di pensare i grandi temi della dogmatica, la rivelazione, la liturgia e così via. I grandi mutamenti tecnologici hanno infatti influenzato in passato il senso di appartenenza ecclesiale: pensiamo ai mezzi di trasporto, o la partecipazione alla liturgia, pensiamo all’uso del microfono in chiesa”.

I primi frutti di questo lavoro sono stati affidati a “La Civiltà Cattolica”

Ho messo ordine tra i miei pensieri e ho scritto un primo articolo per definire un campo. Non è la prima volta infatti che si parla di “cyberteologia”, però esistono più definizioni, con indicazioni anche molto differenti tra loro. Ho cercato di riassumerle e di fare la mia proposta. Da qui poi in rete (sul sito www.cyberteologia.it) sono nate una serie di riflessioni che riguardano la possibilità di una relazione tra la visione cristiana della vita e la visione cosiddetta hacker. Articoli che essendo in rete sono ora condivisibili nei social network.

Reazioni?

Subito molto positive. Persone appartenenti a diverse confessioni cristiane hanno aderito alla pagina che ho successivamente creato (facebook.com/cybertheology) e così anche all’account Twitter. Sia nel mondo protestante che in quello cattolico ho trovato un grande interesse, una grande curiosità. Mi sono perciò accorto che la mia proposta rispondeva a una sorta di urgenza: pensare la fede al tempo della rete.

Ci può fare due esempi concreti di come la rete influisca direttamente sul modo di pensare la fede?

Una questione che si pone, e che sicuramente è ricca di implicazioni sul piano teologico, è quella dell’autorità. La mentalità di rete crea infatti un’abitudine alla cosiddetta condivisione reticolare, quindi orizzontale, e sembra così non avere principi esterni, univoci di autorità. È un tema su cui sto riflettendo perché, al di là delle apparenze, le cose sono molto più complesse. Non è affatto vero che non ci sia un’autorità in rete. Infatti, anche quando non c’è una vera e propria autorità si corre il rischio che vinca l’opinione di chi ha più forza, di chi si sa imporre. Basti pensare all’algoritmo pagerank di Google che è in definitiva un sistema per attribuire nel web un rango di popolarità maggiore a un sito piuttosto che a un altro. Un’altra questione, più recente, è quella aperta dalla notizia, peraltro falsa, che ci si potesse confessare tramite un’applicazione, cioè un piccolo software, utilizzabile attraverso l’iPhone. Il post che ho scritto su questa notizia è tra i più letti del blog.

Vuole illustrarcelo?

In realtà l’applicazione permette attraverso una serie di testi di spiritualità di prepararsi debitamente al sacramento della Riconciliazione, non serve certo per confessarsi. Ma la notizia provoca un interrogativo: l’evento liturgico e sacramentale può essere fruibile in maniera digitalizzata? La risposta negativa ci conduce alla constatazione che la realtà dell’evento liturgico non è mai riducibile all’informazione che di essa abbiamo o alla sua riproducibilità tecnica.

Non sempre però nel mondo ecclesiale l’utilizzo della tecnologia digitale va in questa direzione innovativa

Il rischio, certo, è quello di immaginare il linguaggio solo come il rivestimento nuovo di concetti antichi, con una scissione radicale tra linguaggio e pensiero. Ma sono ottimista perché nell’epoca contemporanea la Chiesa, da Marconi in poi, è sempre stata alla frontiera dello sviluppo dei mezzi di comunicazione. Pensiamo alla Radio Vaticana e alla presenza del Papa nei social network. I cristiani, del resto, si sono da sempre appassionati ai nuovi modi di comunicare, perché la comunicazione del messaggio è fondamentale nella nostra religione, fa parte del del loro Dna. Quindi non vedo ritardi. Se mai vedo la necessità di una sollecitazione critica che non sia né eccessivamente entusiastica, né eccessivamente polemica o timorosa. E in questo campo i Pontefici, sia Benedetto XVI, sia il suo predecessore Giovanni Paolo II, sono sempre stati espliciti sulla necessità di mettersi in gioco, di osare.

La sua impostazione di lavoro sembra superare il pregiudizio che la rete sia uno strumento neutro che, in quanto tale, possa essere utilizzato per scopi positivi come negativi

Innanzitutto va chiarito che, come ricordava Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni del 2009, la rete non è uno strumento ma un ambiente. Un ambiente di vita che non deve essere un luogo parallelo al reale ma solo una dimensione della nostra esistenza. Il problema vero oggi è che si addebita alla comunicazione digitale una sorta di scissione tra reale e virtuale e di conseguenza la creazione di due etiche. È un concetto molto rischioso perché crea una spaccatura tra l’esperienza che l’uomo ha di sé in rete e quella che ha nella normale vita quotidiana. Invece, la tecnologia, che oggi sta nel taschino o nel palmo di una mano, va integrandosi sempre più nella nostra vita. L’accesso a internet è immediato e consueto. Lo si consulta per cercare una strada o per avere le ultime notizie. Gli strumenti della comunicazione digitale si alleggeriscono per integrarsi nella vita di relazione. Non ci può essere più un atteggiamento di schizofrenia perché la rete non è un mondo a parte, ma solo uno dei tanti contesti di vita. Il problema, insomma, non è vivere bene in rete, ma vivere bene al tempo della rete.

Oggi il sistema di comunicazione della rete accentua la condivisione del messaggio. Come può rispondere la Chiesa a questa sfida comunicativa senza perdere la sua autorità?

L’idea centrale è che oggi in rete non esistono più contenuti staccati dalle relazioni. La svolta permanente dei social network è che oggi i contenuti non possono essere più semplicemente trasmessi ma vanno condivisi. Si passa dal broadcasting allo sharing. Ciò implica che comunico un messaggio solo se lo testimonio: un concetto molto importante dal punto di vista ecclesiale. La comunicazione di un messaggio non è quindi mai neutra rispetto alla vita che lo veicola. Come si vede è un po’ la riproposizione di un’idea che la Chiesa ha da sempre sostenuto. Ciò tra l’altro implica che il concetto di autorità non sparisca affatto dal web. Infatti, in rete diventa spesso più autorevole proprio chi ha una testimonianza talmente interessante ed efficace da attrarre più condivisioni. Quindi l’autorità della Chiesa è chiamata in rete a spendersi in termini di un’autorevolezza che si basa sulla testimonianza, senza perdere il concetto tradizionale di autorità che non è messo in discussione dai rapporti partecipativi tipici del web. Il punto è che, anche e soprattutto nel campo delle nuove tecnologie, la Chiesa non deve rincorrere la novità. Non deve aggiornarsi o adeguarsi ai tempi. La prospettiva giusta è diametralmente opposta. È semplicemente chiamata dai tempi moderni a prendere maggiore consapevolezza di sé e a discernere il Signore nella storia, per dare il proprio contributo positivo a ciò che sta accadendo, con un atteggiamento critico e profetico. Certo il rischio è grande, ma lo è perché partecipare con la propria specificità alla trasformazione culturale in atto è davvero una grande occasione.

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