Tornando ancora una volta all’ultimo keynote di Apple, ha colpito la frase di Steve Jobs: “Documents in the Cloud really completes our iOS document storage story”. Che cosa intende Jobs con “document storage”, cioè “deposito dei documenti”? Intende quel che tutti conosciamo bene: il file system. In Mac Os, in Windows, in Linux etc… tutti noi abbiamo accesso ai nostri files dislocati in cartelle e directory.
Chi invece usa un iPad (dove la cosa è più evidente che in iPhone per l’uso specifico del device) si è reso conto che iOS è l’applicazione a gestire i contenuti che essa crea e l’utente non si pone nemmeno il problema di dove siano archiviati: ci sono applicazioni e ciascuna di essa ha i suoi documenti. O, viceversa: i nostri documenti sono accessibili direttamente dalle loro applicazioni. Al limite si possono inviare da una applicazione all’altra, se necessario.
Io stesso ho fatto fatica a vivere questa logica a tal punto che ho acquistato una applicazione come Air Sharing dovrei avrei collocato le mie cartelle e i miei files esattamente come faccio col mio computer. E’ stato un tentativo di ripristinare un file system su iPad. Il risultato è stato che non ho mai usato quella applicazione, pur continuando ad avvertirne fastidiosamente il richiamo.
Perché ho avuto queste reazioni? Per una semplice infrazione a una abitudine? Non credo. C’è di mezzo una logica, un “way of thinking” tutta spostata sull’applicazione. Insomma: scompare il contenitore globale, il concetto di depositum.
E’ chiaro che iCloud è funzionale a questa nuova logica che al momento risultata complicata da usare a causa della difficile condivisione dei file. Infatti fino ad oggi quando voglio condividere un file creato su iPad questo va trasferito nel Mac tramite iTunes. Con Documents in the Cloud ogni documento creato in una applicazione viene inviato ad ogni dispositivo e il file compare all’interno dell’applicazione, senza che io debba pormi il problema di capire dove sia andato a finire.
Che si sia d’accordo o meno qui cambia qualcosa di grosso: l’idea stessa di hard disk inteso come contenitore sembra tramontare. E così le sue gerarchie interne e le sue priorità. Emerge una nuova forma di gerarchia legata non ai contenitori di informazione ma alle loro fonti. Per cui l’accesso alle informazioni è possibile solo tramite ciò che le ha create o tramite la loro condivisione, ma sempre a partire dall’interno dell’applicazione che le ha create.
Ogni applicazione, a sua volta, diventa il contesto vitale ideale per l’informazione che genera. Per cui cui le “cartelle” (folders) diventano sempre di più “scaffali” (stacks). E così via…
Il linguaggio e le metafore plasmano il nostro modo di immaginare e di comprendere la realtà in generale. I teologi possono utilmente guardare alle evoluzioni scientifiche e tecnologiche per capire che cosa esse possano dirci circa il nostro mondo e quali metafore e analogie passano nutrire il pensare teologico… Siamo su un terreno instabile e ancora molto problematico: i due ambiti, quello teologico e quello informatico, certo appaiono completamente ben distinti e separati metodologicamente.
Avevo già notato la metafora teologica messa in gioco da Steve Jobs. Come questa re-visione del depositum avrà un impatto nel nostro modo ordinario di organizzare il nostro materiale intellettuale, il nostro modo di accedere all’informazione? La stessa idea di conversione avrà un valore sempre più limitato, ovviamente, a favore di quella di condivisione o di invio (send to). Il passaggio dal file all’applicazione come centro del sistema suggerirà questo cambiamento anche una qualche ricaduta di valore teologico?
Negli ultimi tempi, specialmente in ambito evangelico la Chiesa è stata letta alla luce dell’immagine del network, e se anche l’applicazione fornisse una immagine interessante (sebbene sempre parziale)?
Claudio Fraticelli says:
Io presterie attenzione alla espressione “document storage story”, storia del deposito dei documenti. La questione si collega alla capacità di fare memoria attraverso il documento ma questo, mutuando dalla esperienza ebraica, implica una “lettura infinita” come esperienza di ascolto e approfondimento della Parola! E’ possibile farlo con il Web? Ci stiamo inoltrando in una “nuova oralità” che non usa il suono della voce – se non incedentalmente, semmai in streeming – e non si giova della realtà situaziononale per la comprensione dei concetti … altre materie su cui riflettere
buddaci says:
Una questione puramente tecnico economica:
il nascondere lo storage rende la vita più facile per l’utente finale.
Ma ha un prezzo nascosto da pagare: lo rende anche ‘schiavo’ di quella particolare applicazione sopratutto perché non si pone più il problema del formato in cui è scritto il contenuto (è aperto, chiuso, ci sono altre app che lo possono leggere? Non posso accederlo direttamente dunque me ne dimentico).
In altre parole se domani voglio cambiare applicazione (e dunque device e vendor) potrò portarmi il contenuto con me?
La guerra economica si sta spostando sul campo di battaglia del contenuto e della sua ownership.