Velocità e lentezza. Tecnica e spirito. Caratteristiche «antitetiche» del nostro mondo, o invece concetti indispensabili l’uno all’altro, che vivono insieme o insieme crollano. Anche se la società odierna spesso li pone in alternativa, «nel rapporto con il territorio emerge la virtù della lentezza, in quello con le nuove tecnologie la velocità. Ed entrambe vanno coltivate». L’analisi veniva ieri da un addetto ai lavori come monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio Cei per le comunicazioni sociali, intervenuto a Cesena a «Territorio e Internet», il Convegno nazionale della Fisc, federazione che raccoglie un patrimonio di 189 testate che ogni settimana, in tutta la Penisola, raggiungono un milione di case. Ecco il testo della sua relazione.
Premessa
Il conte Giuseppe Dalla Torre nelle sue Memorie[1] ci svela il singolare rapporto tra Benedetto XV e il suo giornale L’Osservatore Romano, che, per quanto “letto se non da preti e frati (e anche fra essi molti preferivano altri giornali)” – così sì lamentava il Segretario di Stato, card. Gasparri – rappresentò la voce cattolica più coraggiosa durante “l’inutile strage”, diversamente da altri fogli viziati da un nazionalismo imbarazzante. Siamo peraltro nel periodo di fondazione del Corriere Cesenate, il cui centenario ci vede qui tutti insieme.
Il Papa per quanto amasse il suo giornale, pare che esercitasse un controllo addirittura puntiglioso su tutto quanto veniva pubblicato. Non solo annotava, correggeva, approvava ogni articolo, ma alla fine addirittura ogni mese inviava una pagellina con i voti per Dalla Torre, il direttore appunto, e per i suoi redattori. Un editore il Papa, le cui correzioni arrivavano in tempo reale, mostrando fastidio soprattutto per certo giornalismo creativo. “Una volta il giornale aveva segnalato a una cerimonia a Bologna la signora Augusta Nanni Costa, aveva assegnato all’America una certa isoletta asiatica, aveva visto a un’altra cerimonia una nota personalità. E il Santo Padre: “La signora Nanni Costa non era quel giorno a Bologna. L’isola appartiene all’Asia. La personalità è morta. Dunque l’Osservatore Romano dona l’ubiquità, trasporta da un continente all’altro le terre, resuscita i morti”[2] (!).
Per quanto si possa sorridere di un tale editore, non vi è dubbio che ci troviamo di fronte ad un caso raro, quasi maniacale, di conoscenza insieme del territorio e del linguaggio, due diversi luoghi da abitare appunto, come recita il titolo di questo appuntamento della Fisc.
Vorrei lasciarmi ispirare da questo aneddoto per cercare di evidenziare quanto anche oggi siano necessarie l’una e l’altra attenzione se vogliamo – come fu il Papa e il suo giornale – essere una voce fuori dal coro dell’ovvio e identificare la voce del giornalismo cattolico con una lettura originale della realtà.
Il rischio oggi incombente è infatti quello delle false alternative. Una di queste false alternative sarebbe quella di scegliere tra il territorio e la rete. O l’uno o l’altra. Mai l’uno insieme all’altra. A pensarci, nulla di più falso e di più inutile, visto che contrapporsi tra chi nostalgicamente rimpiange i tempi dei rapporti brevi e chi si inebria con la velocità dei new media è fuorviante e conduce ad un vicolo cieco che ci esilia dal mondo di oggi che vive, al contrario, una radicale continuità tra l’on line e l’off line, come ampiamente dimostrano i vissuti dei giovani[3]. Occorre dunque che abbandoniamo definitivamente ogni logica contrappositiva e riscopriamo quel profondo respiro cattolico che fa dell’et et e non dell’aut aut la chiave per capire. Non è facile accettare la logica cattolica perché dovendo abbracciare l’insieme richiede più fatica e non si accontenta di facili semplificazioni. E noi che siamo identificati come “periodici cattolici”, molto meglio che semplicemente “settimanali diocesani” o “giornali dei cattolici”, dovremmo ritrovare il gusto e la freschezza di questa aggettivazione che non è semplicemente confessionale, ma evoca una prospettiva e chiama in causa una responsabilità. Quale? La strada da imboccare potrebbe aiutarci a ritrovare le radici del giornalismo cattolico e insieme acquisire delle ali, valorizzando al meglio la svolta tecnologica nella quale siamo immersi da tempo.
Nel rapporto con il territorio emerge la virtù della lentezza, in quello con la nuova tecnologia la velocità. Entrambe vanno coltivate perché stanno o cadono insieme.
1. Il territorio: coltivare le relazioni è ritrovare… la lentezza
Tutti i nostri giornali hanno un rapporto genetico con il territorio di appartenenza. Da “Il Monte Rosa” (NO), fondato nel 1865, cioè 4 anni dopo l’unità d’Italia, fino all’ultimo nato in casa Fisc, “Molisinsieme”, emerge sempre questo riferimento geografico, che dice il dna di una iniziativa editoriale che intende dar voce ad una determinata cultura fatta di luoghi concreti, di memorie condivise, di problemi precisi. In un mondo sempre più globale questo riferimento non va interpretato in senso secessionista o banalmente localistico, ma piuttosto come una dichiarazione di appartenenza che non va dissimulata, ma semmai riaffermata.
Il territorio dice pure una precisa scelta della Conferenza Episcopale Italiana che si propone come strumento di servizio e di coordinamento delle singole realtà ecclesiali, avendo di mira nello specifico mondo dei media lo sviluppo dell’articolata serie degli strumenti di comunicazione a livello locale, non meno di quelli a carattere nazionale (Avvenire, Tv2000, RadioInBlu, Sir). Proprio questa persuasione spiega pure una opzione che l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali ha cercato di realizzare negli anni, sin dai tempi di mons. Ceriotti. Per quanto riguarda l’ultimo anno, ad esempio, sono state circa 50 le visite nei diversi territori della Penisola, con un ritmo di circa un appuntamento ogni settimana per tutto l’anno. In termini pratici significa ipotizzare non uno, ma spesso più giorni per gli spostamenti.
La conoscenza di prima mano delle redazioni così come delle persone che fanno comunicazione sul territorio è sempre una piacevole sorpresa. Colpisce la dedizione e insieme il disinteresse di tanti che fanno del loro servizio alla comunità cristiana nell’ambito del giornale piuttosto che del sito web o della radio una forma di testimonianza cristiana e, in diversi casi, anche una forma di realizzazione professionale. Conoscere andando sul territorio non è un tour fine a se stesso, ma attiva una vicinanza e un contatto che possono lievitare verso proposte e forme di collaborazione. È fondamentale conoscere che molte volte il direttore del settimanale è lo stesso dell’ufficio diocesano e ipotizzare forme concrete per esercitare questa doppia responsabilità, così come realizzare un dialogo concreto tra i diversi soggetti della comunicazione di una diocesi all’interno di una cabina di regia che dovrebbe essere l’ufficio diocesano e non un singolo strumento, per quanto storico.
Si potrebbe peraltro ritenere questo andare su e giù per l’Italia una perdita di tempo e una sottrazione di energia ad uno sguardo d’insieme. In realtà qui si gioca un aspetto determinante della comunicazione ecclesiale che è la sua capacità di stabilire relazioni dirette e prolungate nel tempo. Ciò esige di riscoprire la lentezza che rappresenta l’antidoto ad una malattia diffusa che è l’accelerazione che si è presto trasformata nella tirannia del tempo. La cultura presente – occorre riconoscerlo – dà molta importanza alla velocità e all’efficacia e, in cambio, disdegna la pazienza e la perseveranza. Ciò che viene penalizzato alla fine non è solo la lentezza, ma la calma, la capacità di pensare e dunque di forare la coltre apparente di un mondo che corre all’impazzata e che ci risulta sempre più incomprensibile.
Cogliere le aspirazioni profonde del nostro tempo, anche dietro le sue ossessioni e le traduzioni riduttive, anziché normalizzare l’esistente sotto l’alibi del “diritto di cronaca”, o, peggio, farsi manovali della “fabbrica delle notizie” ad uso e consumo di interessi di parte, è il compito ermeneutico ed educativo che spetta oggi al giornalista. Perché è da Ermes, il messaggero degli dei che portava le notizie, che deriva “ermeneutica”: in fondo solo chi conosce perché ha la possibilità di spostarsi, vedere, interrogare, è in grado di interpretare e raccontare. Il giornalista è l’ermeneuta dell’attualità, che fa emergere i significati non immediati e che dà luce alle realtà poco visibili; così come l’educatore, secondo Michel De Certeau, è “l’ermeneuta del senso nascosto”.
Forse oggi va riscritto in chiave educativa l’assioma di Watzlawick: se è vero che “non si può non comunicare”, che per il solo fatto che siamo corporei (con una postura, un’espressione, una scioltezza o rigidità,…) comunichiamo qualcosa, è ancor più vero che ogni nostra azione compiuta di fronte ad altri è educativa (o diseducativa). Questa consapevolezza – in questo decennio dedicato alla educazione – deve richiamarci alle nostre responsabilità. Senza questa tensione alla verità, alla complessità e pluralità del reale e al significato educativo della propria professione il giornalista rischia non solo di svolgere male il proprio ruolo, ma di prendere degli abbagli clamorosi, incapace di distinguere tra la realtà e le sue tante immagini falsificate. Il radicamento in un territorio e la possibilità di una verifica immediata delle fonti e dei fatti è un’opportunità che va salvaguardata attraverso una paziente opera di tessitura dei legami e delle conoscenze dal basso. La lentezza infatti, di cui il territorio è custode, è l’altra faccia della realtà che è solida e non semplicemente liquida e richiede tempi prolungati di riflessione e di investigazione. Ancora oggi risulta vero che l’efficacia di uno strumento e la pervasività di un linguaggio sono legate a doppio filo alla variabile umana, cioè alla qualità delle persone concrete e alla qualità delle loro dinamiche relazionali. E l’educazione a un tale profilo di giornalista è come sempre lunga, come ogni processo umano. I movimenti della lentezza propongono alternative all’accelerazione che condiziona la nostra vita, nel modo di mangiare, di spostarci da un luogo all’altro, senza per questo ottimizzare i tempi se è vero che gli spostamenti occupano il 25% della vita sociale delle persone, mentre nelle società non motorizzate la percentuale era del 3 o 4%[4]. La velocità ci toglie il senso delle cose, spingendoci verso una società nevrotica e spersonalizzata. Più, prima e più rapidamente non sono sinonimo di meglio.
Quando il pensiero si espone alla sfida della fede, il quadro interpretativo si arricchisce straordinariamente. Introdurre infatti un principio trascendente dentro un cerchio di immanenza totale giova al mondo di oggi che rischia l’appiattimento. Lo aveva intuito non senza una certa dose di nostalgia E. Bloch che dal suo punto di vista aveva laicamente osservato: “Senza le strade interiori dello spirito non si può camminare eretti e con dignità sulle strade esteriori del mondo”.
2. Internet: cogliere le connessioni è la velocità
La nostra era è figlia della velocità. La tecnica da un lato ha consentito un’accelerazione sempre più spinta di tutti i processi, che rasenta quasi il magico; dall’altro rischia di diventare un sostituto della religione, quasi la dimostrazione della sua obsolescenza. Ma non è necessariamente così.
Il primo impulso alla velocità è venuto dalle macchine, che hanno riscritto il paesaggio, la forma delle città, i modi del vivere sociale.
Esaltato dai cambiamenti introdotti dalla velocità, nel 1916 Marinetti scriveva uno dei manifesti del futurismo, La nuova religione-morale della velocità, estremamente interessante da rileggere oggi, perché rende espliciti insieme le verità e i rischi idolatrici della nuova epoca:
“La magnificenza del mondo s’è arricchita di una bellezza nuova, la bellezza della velocità. L’arte dinamica la nuova religione-morale della velocità nasce in quest’anno futurista (…). La morale cristiana (…) non ha più ragione d’essere oggi (…). L’energia umana centuplicata dalla velocità dominerà il Tempo e lo Spazio (…).
Se pregare vuol dire comunicare con la divinità, correre a grande velocità è una preghiera. Santità della ruota e delle rotaie. Bisogna inginocchiarsi sulle rotaie per pregare la divina velocità.
L’esaltazione prometeica contrappone e incita a scegliere tra velocità e lentezza, tecnica e spirito. Un’alternativa (falsa) alla quale, anche se con toni meno enfatici e trionfalistici, non abbiamo mai cessato di essere richiamati.
Ma insieme al delirio di onnipotenza ci sono anche intuizioni che anche oggi possiamo condividere:
Una grande velocità d’automobile o d’aeroplano consente di abbracciare e di confrontare rapidamente diversi punti lontani della terra, cioè di fare meccanicamente il lavoro dell’analogia. Chi viaggia molto acquista meccanicamente dell’ingegno, avvicina le cose distanti guardandole sistematicamente e paragonandole l’una all’altra e ne scopre le simpatie profonde. Una grande velocità è una riproduzione artificiale dell’intuizione analogica dell’artista.
Dopo le macchine vengono i media. Nei primi anni ’80 il filosofo francese Paul Virilio aveva coniato il termine “dromologia”, scienza della velocità, per indicare, non senza preoccupazione, questo aspetto sempre più pervasivo della vita contemporanea, applicabile ad ambiti diversi, dall’informazione all’economia, dalla politica alla sfera militare: non siamo forse nell’era degli instant books, delle guerre-lampo e dei blitz, degli scoop e dei flash mobs, solo per citare qualche fenomeno diffuso?
Se la televisione ha inaugurato l’era della simultaneità despazializzata (Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità, Il Mulino 1998) grazie alla diretta e alla possibilità di partecipare allo stesso evento anche al di fuori della compresenza spaziale, con il digitale l’accelerazione aumenta ulteriormente, e l’istantaneità modella le nostre aspettative di rapporto col tempo, creando insieme nuove opportunità, che hanno modificato anche il mestiere del giornalista.
Da un lato, grazie al web, si è affermato il “desk journalism”: quanta parte del lavoro giornalistico si riduce oggi a rimpolpare notizie d’agenzia, senza il tempo di verificare, osservare, contestualizzare? La mobilità vera diventa un lusso, l’approfondimento un dispendio inutile, tanto poi la gente non ha il tempo di leggere…
Ma dall’altra parte, la rete e la diffusione di dispositivi leggeri hanno consentito una profonda trasformazione nella direzione della connessione e della partecipazione: e non solo per la possibilità di forme di “giornalismo dal basso” (citizen journalism), certamente preziose anche se sempre da verificare, ma anche per le nuove occasioni di sinergia tra attori, testimoni, fonti e diffusione dell’informazione. Con la necessità, per il giornalismo della carta stampata, di riposizionare la propria funzione in rapporto ai nuovi scenari, e di farsi “bussola” e spazio di riflessione piuttosto che puntare, appunto, sulla velocità della notizia.
La velocità del web è certamente ambivalente.
Da una parte il digitale, con le sue caratteristiche distintive che sono la convergenza (che significa multimedialità, crossmedialità, migrazione dei contenuti tra le piattaforme, polifunzionalità dei dispositivi) e la postmedialità (con i media che da strumenti sono divenuti ambiente, per la loro pervasività, il loro carattere di protesi ed estensioni perennemente attive, la loro capacita di rispazializzare e ritemporalizzare l’esperienza, la loro perdita di confini con l’ambiente fisico), introduce inedite possibilità di connessione tra persone, luoghi, territori materiali e immateriali, in tempi pressoché istantanei, potenziando enormemente le opportunità di conoscenza, incontro, relazione e comunicazione.
Dall’altra parte, come scrive Sherry Turkle nel suo ultimo libro, nell’era digitale c’è una “pressione tecnologicamente indotta per volume e velocità” della comunicazione (Alone together, 2011, p. 166) e sempre più tutto si misura in termini quantitativi: numero di contatti, di chiamate o mail ricevute, di accessi alla propria pagina web… E laddove la quantità non ci sostiene subentra l’ansia: “l’ansia è parte della nuova connettività” (ivi, p. 242).
Velocità vuole anche dire immediatezza dell’azione, che ritorna quasi a uno schema stimolo-risposta: scrive ancora la Turkle a proposito della comunicazione digitale, tra SMS e Social Network: “il mondo testuale risposte rapide non rende la riflessività impossibile, ma fa poco per coltivarla”(ivi, 172).
La velocità è dunque amica dell’efficienza, della quantità, della connettività, ma nemica della riflessività, dello spirito, dell’equilibrio personale?
Non necessariamente. Lo diventa solo se la tecnica è assolutizzata e il limite rifiutato, in nome della legge della fattibilità.
La via umanizzante è invece quella della relativizzazione, dell’accettazione del limite e della sintesi, che consente di attraversare i confini tra reale e virtuale senza restare intrappolati nell’orizzontalità del web.
L’era digitale rappresenta dunque una sfida e un’opportunità per la Chiesa oggi. Infatti, come riconosce il Papa,
“Non si tratta solamente di esprimere il messaggio evangelico nel linguaggio di oggi, ma occorre avere il coraggio di pensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra la fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo. È l’impegno di aiutare quanti hanno responsabilità nella Chiesa ad essere in grado di capire, interpretare e parlare il ‘nuovo linguaggio’ dei media in funzione pastorale (cfr. Aetatis Novae, 2), in dialogo con il mondo contemporaneo, domandandosi: quali sfide il cosiddetto ‘pensiero digitale’ pone alla fede e alla teologia? Quali domande e richieste?” (Benedetto XVI, Le sfide della cultura digitale).
Rispetto ad altri “attori” dell’era digitale, la Chiesa ha comunque un vantaggio: infatti essa “può essere nella rete perché è fortemente radicata nei territori; può smaterializzare i propri interventi perché è profondamente incarnata nelle relazioni di prossimità e condivisione delle situazioni quotidiane, e molto meno di altri soggetti corre il rischio della virtualizzazione” (D. Pompili, Il nuovo nell’antico, Milano, San Paolo, 2011, p. 119).
Il portale della CEI è uno dei luoghi di questa sintesi, dato che costituisce un vero e proprio snodo tra le rete globale e smaterializzata del web e i territori concreti delle diocesi; tra la velocità dell’informazione in tempo reale, con i documenti ufficiali accessibili a tutti e gli eventi principali che riguardano la vita della Chiesa documentati con foto e video, e la “lentezza” del legame fisico con i territori, fatto di appuntamenti segnalati che preludono a spostamenti, incontri, relazioni in compresenza, estremamente concrete e situate nello spazio e nel tempo delle comunità.
Qui il virtuale e il reale fanno sintesi e diventano due spazi contigui e sinergici, che consentono all’informazione di viaggiare più veloce e raggiungere più persone, ma anche alla partecipazione e alla condivisione di farsi più attive e consapevoli, oltre che più estese.
Nel mondo di oggi occorrono reti veloci e interattive, che strutturalmente sono orizzontali; ma occorrono anche voci che aiutino ad alzare lo sguardo, e costruiscano comunità e legame a partire da questa verticalità.
“la dimensione spirituale deve connotare necessariamente tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso richiede occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di superare la visione materialistica degli avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un ‘oltre’ che la tecnica non può dare. Su questa via sarà possibile perseguire quello sviluppo umano integrale che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della carità nella verità” (CV 77)
3. Per il futuro? “Festina lente” (Affrettati lentamente)
Velocità vuol dire movimento, rifiuto della stanzialità. Ma, di nuovo, è nella tensione tra queste due posture, piuttosto che nella loro contrapposizione radicale ed esclusiva, che la nostra umanità si può realizzare.
Il web costringe i territori ad aprirsi. La stanzialità da sola favorisce infatti un provincialismo ottuso, un etnocentrismo arrogante, l’irrealistica sensazione di essere il centro del mondo, la chiusura difensiva verso le contaminazioni, un senso di inferiorità e irrilevanza che si rovescia nel suo contrario, in una grottesca idea di autosufficienza e superiorità, e produce la paura del diverso e il timore dell’altro.
Ma la mobilità assolutizzata, il nomadismo senza direzione o l’integralismo della corsa, producono sradicamento, confusione, incapacità di attaccamento, cinismo, strumentalità e sfruttamento.
Va bene la velocità della connessione, ma occorre anche la sosta, che rende possibile l’incontro. La lentezza è condizione dell’ascolto, così come lo è il silenzio. Senza silenzio non c’è comunicazione (si veda il tema per la prossima giornata mondiale delle comuni azionai sociali).
Come scriveva Romano Guardini: “È proprio dell’essenza di ogni forma di linguaggio l’essere rapportata al silenzio. Solo dal confluire di queste due componenti risulta il fenomeno nella sua interezza. Esse si determinano reciprocamente, poiché solo chi sa tacere può veramente parlare, nello stesso modo che l’autentico silenzio è possibile solo a chi sa parlare. Il vero silenzio non significa una mera entità negativa, tale da rimanere inespressa, ma un comportamento attivo, una commozione fervida della vita interiore (…). Solo da questa commossa serenità proviene alla parola quella forza misteriosa che la rende compiuta (…). Priva di questo rapporto col silenzio la parola diviene vaniloquio” (R. Guardini, Linguaggio, poesia, interpretazione, Morcelliana, pp. 15-16).
L’eccesso di parole che segna il nostro tempo non solo non è sinonimo di comunicazione, ma rischia di soffocare questa e altre dimensioni antropologicamente vitali: “Il fatto che nel vaniloquio e nel convulso fragore del nostro tempo il silenzio si vada perdendo è una delle cause per cui l’esperienza religiosa si offusca e, proprio per questo, il linguaggio religioso perde autenticità e contenuto” (ivi, p. 16).
Senza lentezza la velocità è frenesia distruttiva e vuota; senza silenzio la parola è vaniloquio solipsistico. Senza lo spirito e l’amore per l’umano la sintesi è impossibile, come dimostra la cultura contemporanea, piena di false alternative da una parte e di false compatibilità dall’altra.
Vivere nella velocità, nella successione delle urgenze e delle emergenze ci rende insensibili al contesto, oppure solo strumentali. Comunque, ci fa vivere in un mondo in cui noi e le nostre priorità siamo il centro. Un mondo in cui l’altro non ha spazio. A meno che, appunto, la velocità non si coniughi con la lentezza:
“I veloci, i progettanti, i convegnisti, i giornalisti consumano voracemente il mondo e pensano di migliorarlo. La lentezza sa amare la velocità, sa apprezzarne la trasgressione, desidera anche se teme la profanazione contenuta nella velocità, ma la profanazione di massa è l’empietà senza valore, un diritto universale all’oltraggio” (Franco Cassano, Il pensiero meridiano).
Proprio perché indifferente al contesto, e intollerante del limite, la velocità rischia di essere “oltraggiosa”, di profanare la realtà senza lasciare nulla in cambio. Come tanto giornalismo sensazionalista, che si riduce a un atteggiamento predatorio e irrispettoso del dolore, della perdita, dell’angoscia dei protagonisti delle vicende.
La velocità che non fa sintesi con la lentezza suggerisce un atteggiamento bulimico, che non lascia il tempo della riflessione, della valutazione, dell’assimilazione. E che alla fine ci rende ciechi, come afferma Georges Didi-Huberman: “Viviamo all’epoca dell’immaginazione lacerata. L’informazione ci dà troppo moltiplicando le immagini, e noi siamo portati a non credere più a niente di ciò che vediamo, e infine a non volere più guardare niente di ciò che abbiamo sotto gli occhi”[5].
Flannery o’Connor, per la quale “to believe nothing is to see nothing” (se non si crede in nulla non si vede nulla) usava dire di se stessa “Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica” (cit. in A. Spadaro, Il volto incompiuto, BUR, p. 33).
I giornalisti cattolici non sono (quando lo sono, ovviamente!) bravi giornalisti nonostante il loro essere cattolici, ma proprio in virtù di questo.
McLuhan scriveva che il cattolico è “l’uomo della consapevolezza integrale” (McLuhan, La luce e il mezzo, Armando). In questo tempo di frammentazione, disorientamento, parzialità e miopie ideologiche, materialismo e immanentismo ottuso, ma anche confuso bisogno di qualcosa “di più” (“che assomiglia molto a un dono ricevuto, a un’altezza a cui ci sentiamo elevati”, CV 77), il giornalista cattolico può essere l’uomo (e la donna) della consapevolezza integrale, della parola e del silenzio, della velocità e della lentezza; facilitatore della ricomposizione paradossale e creativa delle false alternative; promotore di un’osservazione attenta, partecipe e libera della realtà; operatore dello sforzo per una nuova sintesi umanistica.
Perché velocità e spirito non sono affatto incompatibili:
“La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa” (Sap 7, 24).
[1] GIUSEPPE DALLA TORRE, Memorie, Mondadori, Milano, 1965
[2] Op. cit, 74
[3] Cfr. CHIARA GIACCARDI, Abitanti della rete, Milano 2010.
[4] J. D. FRANCESCH, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia, 43
[5] L’immagine brucia”, in Teorie dell’immagine, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Milano, Cortina, 2009, p. 258
Nadia says:
Condivido in pieno le riflessioni di mons. Pompili, soprattutto quando invita a vivere l’et et e non l’aut aut. Ora è tempo di sintesi, non di contrapposizione, di capacità e desiderio di “abitare” tutti i luoghi, specie quelli di frontiera e non protetti, ma con una marcia in più, quella cristiana, che ci permette di non adagiarci troppo quando ci poniamo in silenzio e ascolto e, d’altro canto, di non lasciarci travolgere totalmente quando siamo chiamati (per la responsabilità di cui dovremo rendere conto) a operare con sveltezza e originalità. Il campo è sempre aperto per approfondire come vivere più “umanamente” e quindi “cristianiamente”questo nostro tempo. Grazie.