di Marco Ansaldo, la Repubblica, 6 febbario 2012
“La comunicazione aiuta la Chiesa a capire sé stessa. E la Chiesa aiuta ad avere uno sguardo spirituale sulla Rete”. Sarebbe sbagliato pensare all’universo della fede cattolica con l’immagine stereotipata di un mondo granitico che sa d’incenso e di parole arcane pronunciate in una lingua morta. La Chiesa, in realtà, si sta riformando da dentro. Uno degli esponenti di questo cambiamento è un gesuita di 45 anni, da poco nominato direttore della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica, patito di CyberTeologia (a cui ha dedicato un blog) e duttile sperimentatore di sistemi informatici diversi.
Ma Antonio Spadaro, messinese, è anche uomo capace di unire la tecnica all’intelletto. Al punto che, di recente, il Papa lo ha nominato consultore di due Pontifici consigli: Cultura e Comunicazioni sociali. Aveva già fondato “BombaCarta”, uno dei primi laboratori di scrittura creativa in Rete, e insegna al Centro interdisciplinare di Comunicazione sociale alla Gregoriana. Il suo ultimo libro si intitola Web 2.0 (Paoline). Lo incontriamo nell’ambiente ovattato di Villa Malta, a Roma, sede di Civiltà Cattolica, nel suo ufficio dove tutto è bianco: le pareti, gli scaffali interi dedicati a Kerouac, Tondelli e Flannery O’Connor, il grande tavolo di lavoro sul quale domina un iMac. «Una delle domande che mi pongo – dice subito – è non solo come Internet può aiutare la Chiesa. Ma come la fede può aiutare a comprendere meglio il significato profondo della Rete, il suo ruolo nella storia dell’umanità».
Padre Spadaro, quello che gli osservatori notano, quasi con sorpresa, è quanto la Chiesa stia investendo nel web. Come è avvenuta questa svolta?
«Non c’è stata una svolta, ma un cammino ininterrotto. Il fatto è che la Rete sembra una cosa recente e moderna. No, Internet è una realtà antica per le domande che in forma tecnologica esprime, che sono poi quelle che ognuno di noi fa a sé stesso: chi sono io, cos’è il mondo, chi sono gli altri, la domanda su Dio… La Chiesa ha sempre guardato ai bisogni dell’uomo, e dietro alla tecnologia c’è pur sempre l’uomo. E ha sempre percepito questa linea, anticipando le idee dei social network».
Come?
«Prendo a esempio quanto ha detto di recente Benedetto XVI: “La comunicazione non è propaganda, ma luogo di relazione”. E la Chiesa stessa si fonda su due messaggi: sulla comunicazione del messaggio e sulle relazioni di comunione. La Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate a incontrarsi. Sempre di più la Rete sta diventando un luogo di vita ordinaria, e la Chiesa c’è dentro: con intelligenza, e al tempo stesso, senza alienarsi quell’ambiente, mettendone in luce anche i rischi».
E lei, così aperto alle frontiere della tecnologia più moderna, dirige da pochi mesiLa Civiltà Cattolica, la più antica rivista italiana, attiva da oltre 160 anni. Non c’è contraddizione?
«No. In realtà la nostra rivista nasce proprio da intuizioni innovative: è stata immaginata come una pubblicazione scritta da soli gesuiti, ma non è una rivista accademica: è scritta in lingua italiana e non in latino, come lo erano le riviste ecclesiastiche dell’epoca. Quindi ha fatto l’opzione per una forma di comunicazione non ingessata e militante».
Resta il fatto che c’è un cyberteologo alla guida di una rivista pubblicata con l’imprimatur della Segreteria di Stato vaticana.
«La mia domanda è che cosa significhi fare cultura e comunicazione oggi, al tempo della Rete. È il concetto stesso di rivista che sta cambiando. È chiaro che La Civiltà Cattolica è e resterà di carta. Ma bisogna comprendere che la rivista è innanzitutto il suo messaggio, non il suo supporto, che sia di carta o digitale. Dunque sì, immagino una rivista cartacea ma anche con una versione per iPad, ad esempio. È già attivo da molti anni un sito, ma da adesso anche un account Twitter e una pagina Facebook: tutti canali di diffusione e condivisione di un messaggio. Anche su questi strumenti si fonda oggi la credibilità del giornalismo».
Lei è attivo sui blog?
«Sì, ne curo alcuni. Attualmente tengo aggiornato soprattutto cyberteologia.it. Lì faccio convergere le idee, spesso ancora grezze, che vengono ora dalla mia collaborazione come consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e di quello delle Comunicazioni. Curo anche un vero e proprio quotidiano collegato col blog».
Un quotidiano?
«Sì, nel senso che ho attivato uno strumento che permette di pubblicare contenuti e suggerimenti degli studiosi che si interessano di come la fede vive anche nell’ambiente digitale e con i quali sono in relazione via Twitter. Alla fine viene impaginato quotidianamente un quotidiano on line. È un modo pratico per rimanere aggiornati».
Nel suo libro Web 2.0, si chiede se “c’è Dio nella blogosfera?”. C’è oppure no?
«Sono gesuita e la spiritualità del mio Ordine mi fa dire che Dio è attivo nel mondo. Anzi “lavora”, come dice il nostro fondatore, sant’Ignazio di Loyola. Noi gesuiti cerchiamo Dio in tutte le cose, sviluppando il fiuto della sua presenza persino laddove sembra non essere presente. Si tratta di vedere le tracce che lascia».
In questo la Chiesa è al passo con i tempi?
«Trovo nella Chiesa un crogiolo di elaborazione culturale e un livello di maturità sempre in crescita. C’è però bisogno di stare desti. Ha ragione il cardinale Ravasi: “Si può parlare di tutto”».
Confessi: lei studia da “piccolo Ravasi”.
«Lei dimentica che noi gesuiti facciamo un voto di non cercare alcuna prelatura o dignità ecclesiastica».
Intendo da teologo aperto al mondo della comunicazione.
«Certamente. L’identità della rivista che dirigo si fonda sugli argomenti più diversi e, oltre alla storia, alla politica e all’economia, c’è da sempre grande attenzione per l’arte, la musica, la letteratura, il cinema, lo sport, i linguaggi degli uomini, incluso quello digitale. Io sono cresciuto a questa scuola. Sono dunque naturalmente molto interessato a quel che si muove nel contemporaneo e a contaminare gli interessi. In fondo, l’uomo è uno, e non può vivere in recinti separati e chiusi. E questa è appunto una chiave per capire l’uomo, il mondo e la realtà».
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