Articolo del Card. Gianfranco Ravasi apparso su Il Sole 24 Ore di domenica 23 settembre 2012 nel quale esprime un parere sul mio Cybereologia. L’occhiello dell’aerticolo recita: Il credere non si risolve in qualcosa di astrato e remoto ma è calato nella realtà quotidiana dell’individuo, inclusa quella digitale: è la cyberteologia.
«Noi non crediamo più agli dèi lontani/né agli idoli né agli spettri che ci abitano./ La nostra fede è la croce della terra / dov’è crocifisso il figliuolo dell’uomo». Certo, Fortini quando scriveva questi versi in Varsavia 1939 reinterpretava laicamente l’Incarnazione e la Crocifissione cristiane, ma coglieva implicitamente il vero nodo centrale che lega insieme i vari fili tematici del cristianesimo. Il Logos astratto e remoto dei Greci e l’idolo pesante e inerte del paganesimo erano spazzati via e sostituiti da un soggetto unitario, Cristo, che intrecciava in sé divinità e umanità, immanenza e trascendenza, contingente e assoluto, storia ed eternità, crocifissione e risurrezione. Il cristianesimo esige una fede infitta nella ragione, una divinità insediata nella società.
Per questo “Anno della Fede” – indetto da Benedetto XVI a partire dall’11 ottobre (cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II) e che durerà fino al novembre dell’anno prossimo – vorremmo ora suggerire, fra i tanti possibili, alcuni volumi di “contesto”. La fede cristiana è, come si diceva, “incarnata” e non alienante, il credere non è un’eterea ascensione estatica, ma un’adesione esistenziale e fiduciale a un Dio personale e alla sua verità. È inevitabile, quindi, l’accamparsi del fedele nella piazza della storia e non solo nell’intimità velata di incenso del tempio. Elencheremo, perciò, alcuni testi che delineano l’orizzonte in cui deve collocarsi il credente con la sua testimonianza.
È naturale che il grembo più vasto è quello della modernità che, da quel Seicento in cui brillò l’«Io» autonomo di Cartesio e si configurò lo statuto indipendente della scienza rispetto alla teologia con Galileo e Newton, si è ora dispersa nella “liquidità” della postmodernità. Il sociologo Sergio Belardinelli preferisce parlare di «tarda modernità» della quale vuole offrire un “sillabario” di quaranta voci, dall’«Aldilà» fino al «Treno». Quest’ultimo lemma piuttosto curioso fa comprendere quanto sia ancor oggi possibile l’allegoria, posta accanto alla “pesantezza” di termini come biopolitica, consumismo, globalizzazione, guerra, laicità, mercato, parlamento, potere e così via. La vivacità del dettato e il respiro sottilmente ottimistico che animano le varie “sillabe” da reimparare nel linguaggio moderno fanno comprendere come non sia legittimo un certo scoramento pessimistico del cristiano. La destrutturazione e decreazione a cui si è votata la cultura postmoderna può avere come estuario non necessariamente il vuoto e lo spaesamento, ma può essere simile a una piattaforma libera da cui ripartire, recuperando l’eredità apparentemente stinta ed estinta della cristianità e della stessa modernità.
Imbraccia, invece, «l’arco di bronzo» descritto dal Salmista per scagliare le sue frecce «contro gli idoli postmoderni» un teologo raffinato come Pierangelo Sequeri. Tuttavia, il vitello d’oro che egli abbatte non viene brutalmente polverizzato e fatto inghiottire come accade nel celebre racconto biblico, bensì è sottilmente sconfitto attraverso la via dialettica dell’argomentazione, della riflessione e della critica motivata. Sì, perché l’idolo è in realtà solo il segno esteriore di un pensiero, di una concezione esistenziale, di una passione maniacale. Di questi «idoli di testa» l’autore elenca quattro figure che si compongono quasi a punti cardinali di una mappa della nostra contemporaneità. Ecco, allora, la fissazione della giovinezza, l’ossessione della crescita e dell’accumulazione, il totalitarismo della comunicazione, l’irreligione della secolarizzazione. I vaccini liberatori sono indicati in pagine molto mobili, affidate a un linguaggio spesso evocativo eppure incisivo, ramificato e ammiccante, fieramente critico ma convinto alla fine che ogni vizio è una virtù degenerata e recuperabile, dato che carbone e diamante hanno la stessa base, il carbonio, come ricordava Karl Kraus.
Sequeri elenca il «totalitarismo della comunicazione» tra gli idoli postmoderni ed è difficile dargli torto. Eppure, i nuovi linguaggi informatici sono anche una sorprendente svolta culturale, analoga alla scoperta del fuoco, osava dire il sociologo dei media John P. Barlow. Vale qui, allora, in modo particolare il nesso appena enunciato tra vizio e virtù.
Ed è ciò che fa, in un saggio di straordinaria qualità e godibilità, il gesuita Antonio Spadaro dedicandosi alla “cyberteologia”, ossia al come pensare il cristianesimo nel tempo della rete. L’intellectus fidei (l’intelligenza della fede), canone fondamentale della teologia di ogni epoca deve ora esercitarsi nel nuovo terreno digitale con la sua grammatica che privilegia la coordinata incisiva rispetto alla subordinata sillogistica, che si affida all’essenzialità emblematicamente incarnata nei 140 caratteri del tweet, che per comunicare si arresta davanti alla frigidità dello schermo del computer, che si innesta in un sistema nervoso planetario, che alla distesa dell’eco temporale sostituisce l’istantaneità del dato. Ma tra le tante analisi preziose di questo internauta religioso, capace di critica, fondamentale è quella di “connettere” al linguaggio digitale l’antico annuncio fatto di parole proclamate, di sacramenti celebrati, di visioni sistematiche dell’essere e del l’esistere proprie del cristianesimo.
Abbiamo ormai solo lo spazio per una semplice citazione di due incursioni in ambiti particolarmente roventi della modernità, quelli della scienza e della politica. Suggeriamo, allora, di non perdere due testi essenziali. Il primo raccoglie il dialogo di un giornalista con un geniale scienziato e teologo, il sacerdote polacco Michael Heller, interpellato sul tormentato eppur esaltante confronto tra scienza e fede, un incrocio ormai antico che si è consumato attorno a domande capitali per entrambe, come l’origine dell’universo, l’evoluzione della materia e della vita, la genesi dell’uomo, l’approccio conoscitivo sperimentale e teorico, la casualità o l’ordine dell’universo e così via. Infine, ecco la vexata quaestio, sempre incandescente e mai del tutto risolta nell’esperienza storica, quella del rapporto tra fede e politica. È uno dei migliori teologi italiani, Severino Dianich, ad affrontare il tema non dal punto di vista della sociologia o antropologia religiosa, bensì in sede squisitamente teologica, come capitolo rilevante dell’ecclesiologia. Chiesa e Stato laico sono, quindi, collocati in un confronto che è esaminato stando sul versante ecclesiale, interpellando perciò prima di tutto e sopra tutto la Chiesa nel suo presentarsi e confrontarsi con la società moderna democratica e secolarizzata.
Giovanni Vella says:
“Il credere non si risolve in qualcosa di astrato e remoto ma è calato nella realtà quotidiana dell’individuo”: Giusto. Ma poi si legge che questo logos astratto e remoto……. é dei Greci!!…. ed é SPAZZATO VIA…sostituito da un soggetto unitario, Cristo…che intreccia divinitá e umanitá… Trovo esplicitato, in queste parole uno degli evergreen tra gli stereotipi manualistico liceali, tipici di una teologia ideologica (e pigra anche nel leggere Paolo, con il suo linguaggio che viene dal mondo ellenistico).
Sospetto che una avventura intellettuale come quella di Antonio Spadaro che cerca di intus -leggere dentro gli avvenimenti (suppostamente) virtuali della Rete l´agire concretissimo dell´Homo Sapiens alle prese con il mistero del suo esistere e del suo potersi scoprire immagine di Dio, possa, al contrario, assumere tutta la pura energia ermeneutica di un Platone che ha insegnato per primo come leggere l´uomo del suo tempo, come offrirgli una ragione credibile alle sue aspirazioni piú nobili, come aiutare la comunitá civile a dotarsi di una proposta educativa e di leggi all´altezza di questa visione del mondo e del divino. O no?