intervista rilasciata ad Andrea Monda apparsa su Il Foglio, il 5 febbraio 2010
Cliccando su cyberteologia.it si apre un elegante blog che in alto a destra, evidenzia le Info che sobriamente recitano: “Questo è un blog di Cyberteologia intesa come l’intelligenza della fede al tempo della Rete. E’ nato il 1.1. 2011. L’admin è p. Antonio Spadaro S.J.”. Il resto del blog è costituito da un collegamento con una pagina Facebook denominata Cybertheology che ha richiamato l’attenzione e l’adesione dei pochi studiosi dell’argomento in maniera ecumenica (tra loro anglicani, luterani e anche ortodossi) e un altro collegamento con l’account Twitter @cybertheology che in tempo reale aggiorna su tutte le novità legate al tema e, soprattutto, una serie di articoli, già tanti per per un solo mese di vita, dedicati a questa nuova frontiera dell’evangelizzazione, il cyber-spazio.
Il tema della frontiera è molto caro a padre Spadaro, critico letterario de La Civiltà Cattolica appassionato di letteratura americana ma anche di tante altre cose targate USA (al punto che gli amici lo prendono in giro e sviluppano l’acronimo S.J. In Steve Jobs e non in Societas Jesu). La sua appartenenza alla Compagnia di Gesù non è un fatto secondario per il suo interesse cyberteologico visto che, come aveva detto Paolo VI in un discorso del 1974: “Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto fra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i Gesuiti”.
Padre Spadaro dunque ha avvertito che proprio la Rete oggi è un crocevia, una trincea, una esigenza bruciante. E anzi dice di trovare proprio nella spiritualità del suo “fundador” le intuizioni di fondo che lo aiutano a capire il senso delle trasformazioni in atto. Due post del sito cyberteologia.it spiegano tra l’altro la logica di Twitter e quella della interattività proprio a partire dal libretto degli Esercizi Spirituali che è un testo non da leggere, ma da “fare”, un vero e proprio ipertesto, come aveva già spiegato Roland Barthes, che abilita a fare l’esperienza spirituale “interagendo” col testo biblico e non semplicemente “interiorizzandolo”.
Per il cyber-gesuita la Rete è una sfida nuova per la Chiesa, ma dalle radici antiche: l’incontro tra Chiesa cattolica e Rete è la cronaca di un matrimonio annunciato, da lungo tempo, anzi dal Vangelo di Matteo in cui Cristo paragona il regno dei cieli «ad una rete gettata in mare, che raccoglie ogni sorta di cose» (Mt13,47). Partiamo da questa parabola per chiarire i termini della questione e precisiamo che nella Rete c’è davvero ogni sorta di cosa, pesci grandi e pesci piccoli, buoni e cattivi e «gli angeli verranno e separeranno i malvagi dai giusti e li getteranno nella fornace del fuoco». Ma il compito della Chiesa non è quello degli angeli, almeno secondo padre Spadaro che teme la superbia dell’angelismo: “No, penso che anche in questa materia ci sia bisogno di una profonda umiltà, che vuol dire anche conoscere bene ciò con cui si lavora. Umiltà non vuol dire accettare tutto quello che arriva, come se ogni cosa nuova sia buona; tra l’altro Internet non è una cosa nuova, ma solo una veste inedita di bisogni antichi. Il discernimento quindi è essenziale ma presuppone la conoscenza e l’approfondimento, altrimenti si erigono muri e condanne frettolose e nel calderone si butta anche il buono insieme al malvagio”.
Padre Spadaro soppesa le parole, teme l’approssimazione e cerca di evitare i luoghi comuni. “Troppo semplice dire che Internet è uno strumento che può fare cose mirabili e cose orribili e che quindi dipende da come si usa; certo questo è vero ma non è tutto. Innanzitutto Internet non è solo uno strumento ma piuttosto un «nuovo contesto esistenziale», come lo definiscono i recenti Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020. Quindi non un mero “luogo” all’interno del quale entrare in alcuni momenti per vivere on line, e da cui uscire per rientrare nella vita off line. La Rete è una realtà che sempre di più interessa l’esistenza di un credente e incide sulla sua capacità di comprensione della realtà e, dunque, anche della sua fede e del suo modo di viverla”.
Da qui l’esigenza anche di un blog come cyberteologia.it, uno spazio dedicato alla riflessione sull’esperienza della fede ai tempi della Rete. Il giovane gesuita sottolinea la natura squisitamente teologica della sua impresa: “Occorre dunque considerare la cyberteologia come riflessione sulla pensabilità della fede alla luce della logica della Rete, una riflessione che nasce dalla domanda sul modo nel quale la logica della Rete, con le sue potenti metafore che lavorano sull’immaginario, oltre che sull’intelligenza, possa modellare l’ascolto e la lettura della Bibbia, il modo di comprendere la Chiesa e la comunione ecclesiale, la Rivelazione, la liturgia, i sacramenti: i temi classici della teologia sistematica.
La cyberteologia è dunque una conoscenza riflessa a partire dall’esperienza di fede, cioè teologia nel senso che risponde alla formula fides quaerens intellectum; non è mera riflessione sociologica sulla religiosità in internet, ma frutto della fede che sprigiona da se stessa un impulso conoscitivo in un tempo in cui la logica della Rete segna il modo di pensare, conoscere, comunicare, vivere”.
L’admin di cyberteologia.it si dichiara debitore della riflessione del cardinale americano Avery Dulles che negli anni ’70 si propose di scoprire in che modo gli stili mutevoli di comunicazione influenzavano la conoscenza della Chiesa, nella sua natura, nel suo messaggio, nella sua missione, insistendo sulla relazione tra teologia e comunicazione. Proprio sostando su questo incrocio nasce il desiderio di verificare la possibilità di una cyberteologia.
Qualche giorno fa il Papa ha toccato tutti questi temi nel messaggio per la Giornata della Comunicazioni Sociali ed è facile osservare i punti di contatto tra quel discorso e la linea del blog cyberteologico (che non a caso ne cita diversi passi). “Il Papa giustamente sottolinea”, osserva padre Spadaro, “che, se usate saggiamente queste tecnologie «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano» e si sofferma sul concetto di “condivisione”. Ora la cosa centrale secondo me è che la logica della Rete oggi implica che la conoscenza passa per la relazione, un concetto semplicissimo, ma esplosivo. Per conoscere, cioè, non basta pubblicare o trasmettere un messaggio: occorre condividerlo. Da qui la necessità di aprirsi a spazi di condivisione, i social network, in cui ciò che è dato sia condiviso.
Così anche la fede non è fatta soltanto di informazioni, né la Chiesa è luogo di pura «trasmissione», cioè non è una pura «emittente». Benedetto XVI nel suo precedente messaggio per la 43° Giornata Mondiale delle Comunicazioni, due anni fa, ha letto questo desiderio fondamentale di networking che le nuove tecnologie sviluppano alla luce del messaggio biblico. Questo desiderio infatti, egli scriveva, va letto «come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione». E conclude: «Il cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi». Il passaggio è rilevante perché connette direttamente la trasformazione di internet, inteso come social network (dove conoscenza e condivisione sono strettamente unite), alla chiamata di Dio che vuol fare dell’umanità un’unica famiglia.”
Ma la questione resta, su come cioè si possa realizzare l’essenza del messaggio cristiano (l’amore verso Dio e verso il prossimo) nell’impalpabile e anonimo terreno della Rete. Anche qui è necessario fare un passo indietro: “Una volta essere amici per i giovani era possibile solamente se si faceva qualcosa insieme, dall’andare a mangiare una pizza al suonare insieme o partecipare a un gruppo. Oggi è possibile essere amici anche semplicemente scrivendo la propria vita su una bacheca elettronica. Costruire amicizie ai tempi della Rete significa dunque confrontarsi con maggiori possibilità di contatti ma richiede anche una maggiore consapevolezza dell’intensità, della profondità possibile in una relazione umana, «incarnata».
Il concetto di «prossimo» è invece non appeso a un filo ma in radice legato alla prossimità, cioè alla vicinanza spaziale. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è «vicino», cioè prossimo, chi è «connesso» con me. Rischio dunque di essere «lontano» da un mio amico che abita vicino ma che non è su Facebook e usa poco l’e-mail, e invece di sentire «vicino» una persona che non ha mai incontrato, che è diventato mio «amico» perché è l’amico di un mio amico, e col quale ho uno scambio frequente in Rete. Questa stranezza ha radici profonde nell’anonimato della società di massa. Fino all’inizio del XX secolo la maggior parte della popolazione viveva in ambito agricolo e le persone conoscevano certo non più di pochissime centinaia di volti nella loro vita. Oggi è normale il contrario, cioè il non riconoscere i visi incontrati per strada, ed è ovvio che il prossimo è sostanzialmente uno sconosciuto. Il passaggio problematico è che si comincia a valutare la prossimità con criteri troppo elementari, privi della complessità propria di una relazione vera, profonda. La soluzione del problema consiste nel non vivere la Rete come un mondo separato ma come uno dei contesti ordinari di vita. Non una «bolla» staccata dal resto, ma un contesto aperto alla capacità di relazione che desidera e richiede sempre pienezza, autenticità, sincerità”.
Di questo contesto esistenziale padre Spadaro, coglie e accoglie la sfida che passa dal riconoscimento che la Rete non è solo un mezzo di evangelizzazione, un semplice strumento di comunicazione che si può usare o meno. “La Rete è piuttosto un ambiente culturale, che determina uno stile di pensiero e in questo nuovo contesto la fede è chiamata a esprimersi non per una mera «volontà di presenza», ma per una connaturalità del cristianesimo con la vita degli uomini. La sfida della Chiesa non dev’essere quella del modo di «usare» bene la Rete, come spesso si crede, ma come «vivere» bene al tempo della Rete. Internet è una realtà destinata ad essere sempre più trasparente e integrata rispetto alla vita, diciamo così, «reale». Questa è la vera sfida: imparare ad essere wired, connessi, in maniera fluida, naturale, etica e perfino spirituale; a vivere la Rete come uno degli ambienti di vita”.
In questo ambiente però insiste, forte, la puzza di zolfo: siti satanici, pedo-pornografia, fuga nella irrealtà, falsità e inganno nelle relazioni.. Padre Spadaro non nega l’esistenza di tutto questo, ma si fa forte della sua passione segreta per la scrittrice americana Flannery O’Connor (neanche tanto segreta: fra qualche giorno in libreria il suo ultimo saggio dedicato alla O’Connor, Il volto incompiuto, edito dalla BUR): “In ogni romanzo il lettore, dice la O’Connor, osserva l’opera della Grazia in un territorio per lo più occupato dal diavolo. Da questo punto di vista il diavolo è una condizione essenziale per lo scrittore. Mutatis mutandis è senz’altro vero che il diavolo può scorrazzare in lungo e in largo tra le maglie della Rete, ma anche il vento dello Spirito farà lo stesso e compito del cristiano, è sempre la O’Connor a ricordarcelo, è quello di sporcarsi le mani, impolverarsi nel fango della storia, non quello di rimanere in un mondo puro e asettico, quello sì davvero virtuale ma non virtuoso, astratto, disincarnato. Un mondo di angeli, puri spiriti che non intendano vivere il proprio tempo ma astrarsi da esso sarebbe un mondo dia-bolico, cioè separato, ideologico, violento. La sfida è buttarsi nel proprio tempo, discernere il bene dal male e combattere per far passare la Grazia di Dio anche in questo campo di battaglia”.
Ma è proprio la O’Connor a prendersela con i protestanti che consideravano l’Eucaristia un mero simbolo (“se è solo un simbolo che vada al diavolo!”): non c’è il rischio che la vita nella Rete sia solo “simbolica” e non reale? Il rischio che prevalga la virtualità sulla realtà effettiva, materiale? Padre Spadaro cita il caso del pastore battista Paul S. Fiddes, professore di Teologia Sistematica ad Oxford il quale ipotizza una celebrazione eucaristica virtuale dove gli avatar ricevono le specie eucaristiche nel mondo simulato, così come esistono molte «situazioni» in rete che esprimono forme di preghiera che si autodefiniscono «liturgiche»: “Qui è in questione la natura del sacramento, in realtà, e per questo la Chiesa insiste sempre sul fatto che è impossibile e antropologicamente errato considerare la realtà virtuale come capace di sostituire l’esperienza reale, tangibile e concreta della comunità cristiana visibile e storica. Del resto il concetto di «sacramento virtuale» in senso stretto si fonderebbe sul fatto che sarebbe un avatar a ricevere la grazia di Dio che da questo si trasferirebbe alla persona della quale esso è estensione.
È chiaro che dietro questo pensiero c’è la considerazione drammaticamente riduttiva che ricevere un sacramento significhi sostanzialmente essere coinvolto semplicemente in maniera psicologica a un evento, reale o virtuale che sia. In questo senso pane e vino, così come l’acqua nel caso del battesimo, sarebbero tutti elementi accessori e, alla fine, privi di reale rilevanza. Chiarita la «realtà» del sacramento, resta aperta però la questione di come l’abitudine alla virtualità possa in qualche modo incidere nella stessa comprensione del sacramento.
Ma soprattutto un’altra cosa. Le tecnologie digitali e telematiche di fatto hanno creato un nuovo spazio di esperienza, così come hanno fatto tutte le maggiori tecnologie del passato, con il quale il culto cristiano è chiamato a confrontarsi. E’ questa, dunque, la primissima constatazione da fare: l’uomo in Rete esprime il desiderio di pregare e persino di avere una vita liturgica! È proprio dall’evidenza empirica e dalla valutazione dell’esperienza che nasce la riflessione ed emergono le domande che stiamo affrontando. A questo punto l’atteggiamento corretto sarebbe non solamente quello di «difendere» la ricchezza propria della liturgia così come siamo abituati a intenderla, ma comprendere come il desiderio di Dio emerga in maniera prepotente anche in questo nuovo piano di esistenza alla ricerca di forme di espressione”.
Michele says:
Buongiorno. Perchè non riesco a leggere i commenti già pubblicati? Grazie per la risposta.
Antonio says:
Molto interessante. Spero che si apra una discussione che sia condivisione.
Antonio says:
Viviamo in un mondo che funziona bene se tutti i pezzi sono stabili. Gli effetti di questa stabilità si riflettono sull’uno e sugli altri. Pensiamo che le istituzioni e le organizzazioni umane siano simili ad esseri viventi, macchine ben oleate e che funzionino alla perfezione, sicuri che ogni pezzo debba svolgere la sua azione secondo il compito prefissato. Ma le cose non stanno così ed ecco perché il più delle volte i pezzi non vanno perché un qualsiasi imprevisto sconvolge la stabilità del sistema nel suo insieme. Oppure uno o più pezzi non si combinano con gli altri e destabilizzano la funzionalità del tutto. Il poeta inglese John Donne, fin dal seicento, nella sua poesia metafisica, aveva brillantemente intuito la necessità del “tutto”, ovvero la necessità di tenere uniti gli uomini visti come “pezzi” costitutivi di un “continente, il “tutto”, cioè l’umanità.
No man is an island, entire of itself
every man is a piece of the continent, a part of the main
if a clod be washed away by the sea,
Europe is the less, as well as if a promontory were,
as well as if a manor of thy friends or of thine own were
any man’s death diminishes me, because I am involved in mankind
and therefore never send to know for whom the bell tolls
it tolls for thee.
—-
Nessun uomo è un’isola, intero per se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della terra.
Se una zolla viene portata dall’onda del mare,
l’Europa ne è diminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica, o la tua stessa casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.
(John Donne, Meditation XVII)
Anche il “web” è visto come un “insieme” costituito da “small pieces loosely joined”. Questi minuscoli “pieces” sono i “link”, che diventano vere e proprie metafore esistenziali, vaganti nello spazio tra “bits & bytes”, alla ricerca di una identità personale e allo stesso tempo cercando di identificarsi negli altri. In realtà, nessuno di essi può esistere e sussistere senza la presenza-esistenza degli altri, siano essi “isole”, “link” o “esseri umani”. La domanda da porsi allora è: “Chi sarà a tessere la “tela”? Certamente gli uomini. Ma chi sarà l’ “ago” ?