Il 1 agosto scorso il quotidiano il Manifesto ha pubblicato una recensione sul mio libro Cyberteologia a firma di Claudio Canal. Si tratta di una riflessione che valorizza il contributo che con il mio volume ho inteso dare allo studio dell’intelligenza della fede al tempo della Rete. Di questo sono grato all’autore. L’incipit della recensione, a dire il vero, è alquanto strana e improbabile con le sue domande “fantateologiche”, ma si comprende bene che servono ad “agganciare” il lettore: il suo è l’articolo di un quotidiano.
A metà circa Canal si sofferma su un punto che dunque ritiene centrale. E lo fa in maniera sostanzialmente polemica nei miei confronti, affermando che la Rete “non solo rappresenta la realtà, ma è in grado di produrla”. E da qui egli deduce che “Per questo è inaccettabile per l’autore [cioè il sottoscritto, ndr] ogni forma di Chiesa Opensource in cui i fedeli partecipino alla sua costruzione e al suo «mantenimento» in vita in una specie di Wikicclesia permanente”.
Che dire? Canal comprende bene che qui la posta in gioco è grossa. Cioè comprende che il tema dell’autorità è un tema caldo. Da questa intuizione però sembra compiere un maldestro e goffo salto acrobatico di pensiero, attribuendomi addirittura l’inaccettabilità del fatto che i fedeli partecipino alla edificazione della Chiesa. Il che è, a mio avviso, semplicemente assurdo! Non è il mio pensiero, ovviamente.
Il problema però è facilmente risolvibile. Canal crede che io dica che la logica peer-to-peer (cioè nodo-a-nodo) sia errata mentre io dico semplicemente che, quando si parla di Chiesa, è insufficiente. Tra errore e insufficienza c’è una bella differenza, e per nulla sottile. Scrivo nel mio libro, infatti: “Questo non significa che la logica peer-to-peer sia sbagliata in sé, però si deve dire che la logica teologica non è riducibile ad essa: è «altro» e ben «più» di essa”.
Canal invece si fa prendere la mano e mi accusa di un “romanocentrismo [che] manda nel cestino con un semplice delete teologico tutte le collettività cristiane e non solo, alle prese con forme nuove di connettività, comunione, cooperazione attraverso la Rete e di lì nel mondo e che nella centralità cattolica non si riconoscono”.
Lasciando da parte ogni commento su queste deduzioni acrobatiche, veniamo al punto. Il modello di Rete «paritario» detto peer-to-peer (o P2P) non possiede nodi gerarchizzati come i client e i server fissi, ma un numero di nodi equivalenti aperti verso altri nodi della Rete che mentre ricevono trasmettono e viceversa. Insomma: non esiste una vera “trascendenza”. E prevale il modello sociologico dello scambio o del baratto. Su questo non c’è nulla di male. Anzi: molte relazioni ecclesiali si fondano proprio su uno scambio ordinario, normale e generoso. D’altra parte, se il «cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi» – come ha scritto Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali del 2009 – allora la Rete può essere davvero un ambiente privilegiato in cui questa esigenza profondamente umana possa prendere forma.
Il cristianesimo, in qualunque sua forma, tuttavia prevede l’apertura a una Grazia indeducibile e inesauribile allo scambio orizzontale.
Ogni comunità ecclesiale non è semplicemente un circolo di amici o un dopolavoro. E ciò che trasmette lo riceve da lontano. Nel cattolicesimo, in particolare, Continue reading